Una figura centrale di riferimento, autorevole e indipendente, in grado di veicolare giornalmente la vera informazione sanitaria filtrandola da quella falsa o comunque priva di fondamento scientifico. Nel valzer di esperti, professionisti e commissari che si sono alternati nella gestione e nel racconto dell’emergenza Covid-19, Silvio Garattini ha sentito la mancanza di una voce unica della conoscenza. Intesa sia come strumento per smascherare le bufale e innalzare un argine alla cosiddetta “infodemia”, sia come antidoto allo scetticismo culturale talvolta circolato verso la metodologia scientifica, che invece è «l’unica che permette di stabilire la validità di determinati trattamenti terapeutici e preventivi» puntualizza il fondatore e presidente dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri.

Lo stesso scetticismo che ad esempio molti ancora nutrono nei confronti del vaccino Astrazeneca, che a metà marzo aveva imposto l’altolà alla campagna vaccinale. Ora però sembra finalmente che si viaggi a regime, non crede?

«Tutto dipenderà dall’entità dei vaccini che riceveremo e dalla capacità organizzativa di poter vaccinare almeno mezzo milione di persone al giorno. Il Regno Unito ha annunciato che proprio in questi giorni è stata raggiunta l’immunità di gregge. L’avremmo potuta raggiungere anche noi in Italia se avessimo pensato per tempo a prenotare un adeguato numero di dosi dei vaccini disponibili. Avremmo in questo modo evitato una gran parte dei 50 mila morti di questi ultimi 4 mesi».

 

All’appello dei vaccini finora approvati in Europa e nel mondo manca ancora quello italiano, nonostante diversi siano in fase di sperimentazione. Qual è la sua opinione al riguardo?

«I vaccini italiani sono in realtà due, ma da quanto risulta dalle informazioni disponibili, se tutto va bene, essi saranno disponibili solo dal prossimo anno. È difficile dare un giudizio preliminare perché dipenderà fondamentalmente dai risultati della Fase 3. Comunque ben vengano, se saranno attivi, perché per questa pandemia avremo ancora problemi per qualche anno. Infatti non dobbiamo vaccinare solo i Paesi ricchi, ma è importante provvedere anche ai Paesi con basso reddito. Non è un atto di beneficenza, è nel nostro interesse, perché se lasciamo circolare il virus rischiamo di avere varianti del virus insensibili ai vaccini disponibili».

 

Eravamo ancora in pre-Covid quando sostenne che almeno il 50 per cento dei prodotti presenti nelle farmacie sono superflui. Come aggiornerebbe quella percentuale dopo l’esperienza pandemica e, di contro, come vanno valorizzati questi presidi territoriali?

«Le farmacie dovrebbero essere dei punti di riferimento capillare per la salute. Purtroppo però svolgono due attività in conflitto di interessi tra di loro. Per certi aspetti rappresentano un luogo di aggiornamento e di informazione contemporanei alla distribuzione dei farmaci. Purtroppo, dall’altro lato, le farmacie vendono prodotti omeopatici privi di contenuto e tutta una serie di integratori alimentari e di altri prodotti che non hanno base scientifica, ma rispondono solo a logiche di profitto. Evidentemente non sarà facile una conversione».

 

In questi mesi la battaglia al Covid ha relegato sullo sfondo gli altri studi farmacologici in corso. Rispetto alla cura di quali patologie si stanno aprendo gli orizzonti di ricerca più interessanti?

«Il Covid ha invaso tutto e ha perciò generato danni rilevanti anzitutto ai pazienti che non hanno avuto l’adeguata assistenza e che, nei casi più gravi, hanno avuto dilazioni non solo operatorie ma ad esempio di trattamento antitumorale. Anche le riviste scientifiche hanno dato il massimo spazio alla pandemia riducendo quindi gli spazi utili per pubblicazioni scientifiche su altre patologie. Per non parlare del sostegno alla ricerca, concentratosi anch’esso sulla pandemia. Purtroppo pagheremo in futuro questi ritardi di intervento e di ricerca».

 

Una volta raggiunta l’immunità di gregge, come varierà secondo lei l’approccio degli italiani alla cultura scientifica e quali errori non si dovranno ripetere?

«La scienza in Italia è fondamentalmente ignorata perché manca una cultura scientifica, dato l’orientamento della nostra formazione scolastica che è ancora di tipo letterario-filosofico-artistico. Manca nella scuola la presenza della scienza come fonte di conoscenza che ha pari dignità delle altre forme di conoscenza. Per questa ragione, anche la ricerca scientifica è negletta nel nostro Paese. Viene considerata una spesa anziché un investimento importante per l’innovazione e per lo sviluppo di un servizio sanitario nazionale efficiente e rispondente ai bisogni degli ammalati, e non ultimo per il progresso dell’economia. Dobbiamo cambiare il nostro atteggiamento nei confronti della ricerca, evitando soprattutto la continua perdita di giovani che non trovano in Italia le condizioni per lavorare nel campo della ricerca e quindi emigrano».